di Rosa Ana De Santis
Si chiama John Demjanjuk ed era il guardiano del campo di sterminio di Sobibor.
E’ stato condannato a Monaco di Baviera a 5 anni di reclusione:
poco più di uno straccio di pena simbolica e di un’elemosina
morale per le vittime e per i familiari. Come se non bastasse,
mentre la difesa si prepara all’appello, il Boia di Sobibor
è già in libertà. Rilasciato, perché troppo anziano, se n’è
tornato a casa con i suoi 91 anni di colpe e di orrori. La
sentenza, infatti, lo ha riconosciuto parte integrante di
quella macchina del male che ha portato allo sterminio di
27.900 persone.
Una lunga vicenda giudiziaria, iniziata
in Israele con una condanna a morte scampata, e arrivata
in Germania dopo l’estradizione concessa dagli Stati Uniti,
si è sviluppata in 93 udienze e attraverso l’esame di 70
mila documenti. Nessuno dei superstiti l’ha riconosciuto
(anche per l’impossibilità di un confronto diretto) ma Demjanjiuk
era un guardiano e, come tale, aveva un ruolo tutt’altro
che marginale nelle violenze e nelle torture che regolavano
la macabra vita del lager e dei suoi prigionieri e che per
banali ragioni di efficienza non potevano essere appaltate
alle sole SS, che in quel campo erano 20 contro i 150 guardiani
(trawniki).
Alla decisione del rilascio sono seguite
reazioni contrastanti. Da Israele arriva delusione e sconcerto,
anche se Efraim Zuroff, direttore del centro Simon Wiesenthal,
evidenzia il valore simbolico comunque educativo e importante
della condanna. L’imputato, che durante il processo si è
presentato su una sedia a rotelle mantenendo sempre un assoluto
silenzio, si dichiara perseguitato dalla Germania e da tutti
i paesi in cui ha scontato diversi anni di carcere, dovuti
soprattutto all’inizio per esser stato confuso con il ricercato
numero uno,il celebre“Ivan il Terribile”.
L’argomento dei poveri vecchi nazisti da lasciare in pace non è nuovo e la vicenda
del guardiano di Sobibor è solo l’ultima dopo molte altre.
Un improvviso moto di pietà dovrebbe evitare, questo pensano
alcuni, a questi assassini che per molti anni sono stati
latitanti, di pagare il fio dei crimini commessi.
Come se la pena, che finalmente arriva, avesse il sapore di un accanimento o,
peggio ancora, per i tifosi del politically correct, di una
vendetta. Come se lo sterminio scientifico e pianificato
di milioni di esseri umani fosse un crimine paragonabile
ad altri e non quell’assoluta personificazione del male che
è stata. Come se la pena fosse inutile non tanto perché priva
di alcuna sua parte di recupero, ma perché un prigioniero
anziano meriterebbe di finire in altro modo la propria esistenza.
Anche un nazista? Ma ne siamo propri sicuri?
Come la mettiamo con quell’assente
pietà collettiva per tutti quei prigionieri che marciscono
in carcere, malati, tossicodipendenti o stranieri, messi
dentro per reati certamente mai assimilabili allo sterminio,
anonimi come ombre per i quali si muove al massimo qualche
associazione zelante, sull’onda di qualche fattaccio di cronaca?
Perché la loro punizione sembra accontentare tutti e non suscitare grandi dibattiti
morali che poi tuonano invece in prima pagina per l’ultimo
nazista rimasto in vita? Quell’ultimo fossile di male che
ancora oggi non guarda in faccia i superstiti del lager da
cui viene.
Forse per un viscerale rigurgito antisemita e filonazista mai estinto in questa
Europa sede di banche e xenofobia, forse perché la rete di
omertà e di complicità che per molti anni li ha protetti
e li ha messi al sicuro può mettere in pericolo troppi poteri
forti. A chi conviene ormai dopo tanto tempo, con i pochi
superstiti ancori in vita e con le emozioni delle nuove generazioni
ormai sopite?
Nel 2010 l’Australia non aveva estradato
l’88enne Zentai per ragioni umanitarie dovute alla sua età.
Numerose altre inchieste, tedesche come italiane, ad esempio
sulla vicenda di Marzabotto, arrivate in ritardo dopo anni,
ancora oggi sono impantanate a causa dell’età degli imputati.
Come non pensare infine a casa nostra e al caso di Priebke,
capo delle SS, anche lui mandato a casa ai domiciliari confortato
da mille privilegi perché 85enne al momento della condanna.
Un nazista che aveva ordinato la fucilazione alle Fosse Ardeatine
che poteva passeggiare, scortato dai nostri poliziotti pagati
dai nostri contributi, quasi come un cittadino perbene.
Sfugge alla memoria che Norimberga
é stato un processo marziale, un atto costitutivo di civiltà
dopo un precipizio di barbarie. Una rigenerazione che non
poteva non passare attraverso l’abolizione esemplare di quella
stagione umana di criminali. Non fu il momento del dibattito
accademico e della pietà.
Fu un manifesto di giustizia umana, senza spazio per la pietà degli dei. Un’inutile
attesa di risarcimento per le vittime, sapendo che alcun
patibolo avrebbe condannato abbastanza gli aguzzini e la
loro filosofia del male.
Tutto questo dovrebbe persuaderci che nazista non è solo assassino, né solo criminale.
E’ una deviazione maligna specifica dell’umanità, una categoria
invertita dell’essere umano. Che un nazista è tale sempre,
soprattutto se mai ha dato prova di espiazione. Che 5 anni
sono uno schiaffo per le vittime del Boia di Sobibor. Che
potrebbe rimanere chiuso in prigione, come tanti disgraziati,
e che lì dovrebbe morire. Con l’obbligo di leggere fino
all’ultimo dei suoi giorni la lunga lista dei morti del
campo.
L’unica condanna davvero senza pietà
per questo vecchio sarebbe quella di dover vivere fino alla
fine per ricordarli tutti. Ogni giorno. Perché quella lunga
lista di nomi, quelle persone estinte nel vento, tutto quello
che è avvenuto nei lager, come scriveva Primo Levi prima
di uccidersi, “è stato”.
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