Hanno
sfilato insieme, giovani e anziani che si aiutavano con i
bastoni nelle stradine imbiancate, lungo il percorso che
parte dalla cattedrale luterana della vecchia Riga. Un migliaio
di persone, una marcia ordinata tra due ali di bandiere bianche
e rosse, come le rose deposte sul monumento alla Libertà
tra preghiere e cori militari. Omaggio ai soldati lettoni
che combatterono contro i sovietici, ma al fianco dei nazisti.
Poco distante, centinaia di poliziotti tenevano d’occhio
la contromanifestazione dei lettoni di etnia russa che mostravano
le foto di civili e resistenti massacrati dai nazisti durante
la Seconda guerra mondiale. «Vergogna» e «disgrazia» i loro
slogan. Nessuno scontro, sei fermi.
Il Giorno dei Legionari è una data critica nel calendario lettone. La politica
prende ufficialmente le distanze, il Comune di Riga ha tentato
di vietare i cortei ma ha ceduto all’appello presentato dai
veterani. Reduci, neonazisti e simpatizzanti dell’estrema
destra si ritrovano il 16 marzo nella capitale baltica per
celebrare la lotta all’Armata Rossa delle due divisioni di
Waffen-SS nelle quali si arruolarono circa 140 mila lettoni.
Onorati come eroi che combatterono contro l’oppressore sovietico,
l’ultimo e più feroce dei tanti occupanti che nei secoli
hanno soggiogato il popolo lettone. Nel Novecento, lo Stato
nato dopo la Grande guerra fu annesso all’Urss nel 1940 in
virtù del Patto Molotov-Ribbentrop, occupato nel ’41 dai
tedeschi, ripreso nel ’44 dai sovietici che sarebbero rimasti
fino al 1991, quando la Lettonia proclamò l’indipendenza
e intraprese il cammino che l’avrebbe portata nella Nato
e nell’Unione Europea nel 2004.
La lettura storica dei legionari non
è minoritaria. La sostiene il Partito Patria e Libertà, che
all’Europarlamento fa parte del gruppo euroscettico guidato
dai conservatori britannici di David Cameron (bersaglio di
aspre critiche a Londra per la scelta degli alleati in sede
europea). Martedì lo stesso vescovo Pavils Bruvels ha proclamato
nella cattedrale di Riga che i lettoni delle Waffen-SS «furono
martiri che sognarono una Lettonia libera e indipendente
ma vennero derubati, maltrattati, deportati, spediti nei
campi». «Andammo in guerra, non ci fu niente di volontario,
non avevamo scelta » dice Aivars Ozols, 85enne veterano delle
unità d’élite sopravvissuto a nove anni di Gulag. La Legione
era formata prevalentemente da giovani costretti ad arruolarsi,
non mancarono però i volontari. E i collaborazionisti parteciparono
alla soluzione finale. Il 90 per cento della popolazione
ebraica prebellica del Paese (80 mila persone) fu sterminato
durante la guerra. «È una tragedia vedere i giovani onorare
oggi chi aiutò gli assassini— dice Efraim Zuroff, il cacciatore di nazisti a capo del Centro
Simon Wiesenthal —, i reduci pensano di aver combattuto per
il Paese ma a trarre beneficio dal loro coraggio fu solo
la Germania nazista».
La memoria è divisa come la nazione
durante il conflitto: 250 mila persone presero le armi su
entrambi i fronti, 150 mila persero la vita (50 mila erano
legionari, morti in combattimento o nei campi sovietici).
Una ferita che riemerge con regolarità negli ex Stati sovietici,
dove nel delicato processo di rielaborazione di mezzo secolo
di dominio comunista si inseriscono tentativi di riabilitazione
di singole personalità o episodi di storia nazionale riletti
in chiave anti-sovietica. Accade nella Slovacchia del leader
collaborazionista Jozef Tiso o nell’Ucraina che con il presidente
uscente Viktor Yushchenko rende omaggio al fondatore dell’Esercito
insurrezionale Stepan Bandera. Negli ultimi anni le tensioni
politiche ereditate dalla storia hanno rianimato il dibattito
sulla frattura tra «vecchia» e «nuova» Europa, divise soprattutto
sui rapporti con Mosca. In Lettonia i cittadini di etnia
russa sono un terzo su una popolazione di 2,3 milioni. «Ci
sono cose delle quali non possiamo ancora parlare» ha detto
al britannico Guardian l’attore lettone Vilis Daudzins, autore di un testo teatrale
dedicato ai due nonni. Uno combatté con i tedeschi, l’altro
al fianco dei russi, entrambi furono uccisi a trent’anni.
altrimondi.gazzetta.it
|